Dieci anni, e sembra invece solo ieri.
I ricordi sono ancora freschi, intatti nel loro bagaglio di profonda commozione.
Era la sera del 2 aprile 2005, quando piazza San Pietro strinse tra le braccia del suo secolare colonnato migliaia di fedeli raccolti in preghiera: erano giovani e meno giovani che venivano da lui, dopo che egli a lungo era andato a cercarli in ogni angolo del mondo.
Karol Wojtyla è stato un uomo che ha saputo tracciare un solco profondo nelle vicende della fine del ventesimo secolo; la storia lo ha consacrato come Giovanni Paolo II il Grande, ma egli in realtà è stato molto più di questo.
La vita lo portò a confrontarsi con i due più grandi regimi totalitari del ventesimo secolo, nazismo e comunismo. Prima uno, poi l’altro, furono entrambi interessati a sminuire ed annullare l’identità della sua nazione, la Polonia, e nel silenzio nascosto ma attivo Karol ebbe il coraggio di opporsi a modo suo.
A vent’anni andò a lavorare come operaio nelle cave vicino Cracovia, per evitare la deportazione. Spaccava pietre ed intanto studiava di nascosto, ai corsi del seminario clandestino, poiché quel genere di studi era stato proibito dal regime.
Si impegnò nel teatro, ovviamente clandestino, poiché anche quello era proibito.
Capì che il miglior modo di resistere era apprendere, conoscere e diffondere la cultura, abbracciarla nella sua totalità, anche contro le regole imposte dalla dittatura del più forte.
Solo quando il sapere viene fatto proprio è impossibile che esso ci venga tolto e calpestato, un monito che purtroppo molti appartenenti a questa generazione hanno chiuso nel dimenticatoio.
Divenuto sacerdote non mise mai da parte la propria passione per l’attività sportiva e fu così che gli studenti del seminario maggiore di Cracovia e della Facoltà di Teologia di Lublino ebbero come professore un uomo di chiesa capace di portarli in gita in canoa e di celebrare messa tra i prati, senza temere di tramutare in altare la stessa imbarcazione con cui avevano viaggiato lungo il fiume.
Quando fu convocato presso la curia, per comunicargli la decisione di nominarlo Vescovo Ausiliare di Cracovia, si presentò al suo superiore in ritardo. Ed in scarpe da ginnastica.
Scelto come nuovo Pontefice, Giovanni Paolo II seppe rimanere Karol. Ed il mondo così vide per la prima volta un Papa sugli sci, un Papa che faceva lunghe passeggiate in montagna con bastone e scarpe da trekking. Lasciò intravedere alla gente un’umanità tutta peculiare proprio perché non tenuta nascosta, ma vissuta e gustata in ogni aspetto del quotidiano.
E poi vennero i giovani. Tanti, a milioni, contro tutte le previsioni catastrofistiche dei suoi stessi collaboratori. Giovani in ogni angolo del mondo, curiosi, confusionari, colorati.
La notte di Tor Vergata, nel 2000, consegnò a tutte le genti l’immagine di un Karol malato ma non stanco, che con sguardo intenso osservava quella distesa sterminata di luci nel buio, così diversa dalle folle oceaniche dei suoi ricordi di ragazzo.
“Nel corso del secolo che muore giovani come voi venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare.”
Li avrebbe cercati, i giovani, nelle lunghe ore di agonia che precedettero la sua morte. Li avrebbe cercati come aveva fatto durante i ventisette anni del suo pontificato. E loro sarebbero venuti, per l’ultimo appuntamento.
Karol, il Papa che spesso ha infranto le regole dell’etichetta, lasciando di stucco quei conservatori che si aggrappavano a tempi ormai andati. Il Pontefice che alla prima messa in San Pietro costrinse la sicurezza quasi ad inseguirlo (vi ricorda qualcuno? A me sì!). “Non abbiate paura”, aveva ripetuto più volte poco prima, durante la sua prima omelia. E lui non ebbe paura di andare incontro alla gente, camminando spedito e stringendo sicuro la croce come fosse un vessillo.
Karol, il Papa che alla Valle dei Templi di Agrigento tuonò il proprio anatema contro la mafia. Era il 1993 e solo un anno prima l’Italia aveva pianto Falcone e Borsellino, quei “servitori dello stato che lo stato non era riuscito a proteggere”.
Il Papa della dolcezza, che non ebbe alcun timore a farsi intervistare da un gruppo di bambini, lasciando che la loro spontaneità dilagasse, poiché “tutto è puro per i puri di cuore.”
“Ti piacciono gli spinaci?” chiese uno di loro, sperando forse in una risposta negativa per avere la scusante di non mangiarli mai più.
“Quando me li danno li mangio”, rispose lui con il sorriso sulle labbra. Aveva furbescamente glissato la domanda principale.
Karol Wojtyla fu questo ed anche di più. Nell’epoca dell’apparire, seppe sdoganare due cose che la fine del ventesimo secolo cercava con ogni modo di tenere nascoste: la vecchiaia e la malattia, sopportandole entrambe con estrema dignità e lucidità.
E quel mercoledì del 2005, quando anche la voce gli era stata tolta, la sua bocca aperta in una muta benedizione e quello sguardo sofferente seppero comunicare più di un fiume di discorsi. Il silenzio avvolse gli ultimi istanti in cui il mondo lo vide, poiché nessun’altra parola ormai era più necessaria.
Questo era Karol, per me, ed ancora molto altro ci sarebbe da dire.
Tra la miriade di foto presenti ovunque le si voglia cercare mi piace ricordarlo in questo modo, disposto a non prendersi troppo sul serio e pronto a stare al gioco. Chi lo sa, ovunque egli sia potrebbe essere intento a tenerci d’occhio proprio così.